Durante il corso degli ultimi anni il problema della sostenibilità all’interno del campo moda e di tutti i suoi prodotti è lentamente ma sempre più diventato oggetto di interesse e studio anche del consumatore finale.
Questo sviluppo è stato possibile in gran parte grazie alla creazione e distribuzione di docufilm come “The true cost”, “Luxury: behind the mirror of high end fashion“, “Made in Bangladesh“, “The next black unravel” e “Las Costuras de la piel“; tali documentari sono spesso lavoro di giornalisti che si trovano a investigare particolari casi andando così però a portare alla luce problemi molto complessi e tragici, hanno scopo informativo ed educativo per i consumatori finali stessi, mirando a mostrare la non sostenibilità ambientale ed etica di un sistema moda sempre più frenetico.
Il principale tema comune a questi documentari è l’assenza di chiarezza nei metodi produttivi di certe realtà e una mancanza di accountability nei riguardi dei problemi sociali e ambientali che ciò implica.
Molte delle storie raccontate all’interno di questi documentari si focalizzano sulla zona Asiatica pacifica, si guarda in particolare al Bangladesh, paese estremamente povero ma in via di forte sviluppo; tale fattore comporta la presenza di un mercato altamente competitivo, focalizzato solo sul produrre il massimo al minimo prezzo, e una totale assenza di basilari diritti per i lavoratori e leggi sul lavoro che il datore debba rispettare.
La possibilità per le aziende di sfruttare tale situazione risulta possibile in quanto le stesse fanno uso costante di subcontractors, portando così a una perdita di responsabilità da parte dei brand, unico partito che sarebbe sottoposto a leggi più ferree e umane nei confronti di lavoratori e ambiente circostante. Attraverso la scrittura e pubblicazione di uno statement i brand dichiarano una posizione e policy del marchio che tutti i loro fornitori dovrebbero seguire ma, con controlli a riguardo non sufficienti ed accurati, tali documenti rimangono solo belle parole e la condizione di lavoro in tali fabbriche un incubo.
Ma da dove prende vita questo sistema così altamente product driven, si chiede dunque il filmmaker Andrew Morgan davanti alle realtà che scopre. Molta della colpa di questo bisogno di velocità e prezzo basso è legata alla presenza di marchi quali Zara e H&M, che hanno fatto esplodere il mondo del fast fashion, fortemente caratterizzato da prezzi altamente competitivi e ricambio di oggetti e tendenze incredibilmente veloce con lo sviluppo addirittura di una collezione nuova per settimana.
Il fast fashion fa leva su una visione consumistica del prodotto moda, presentando i vestiti come un bene di consumo veloce, a livello di prodotti usa e getta; gli abiti non sono più un bene fatto per durare nel tempo ed essere consumati finché consunti, ma sono qualcosa di facilmente acquistabile, che grazie a un prezzo assolutamente abbordabile e continua novità dà al cliente una breve sensazione di soddisfazione spesso ricercata per l’immagine legata a tale prodotto dalla pubblicità e marketing dell’oggetto.
Questo modo di percepire dei prodotti come qualcosa da dover possedere per poter essere veramente felice crea però un bisogno di sovrapproduzione e non tiene in considerazione l’intera vita di tale prodotto, ne tutto il lavoro necessario a crearlo ne ciò che poi succederà al prodotto quando a me consumatore diventa inutile.
Il bisogno di creare così tanti prodotti a prezzo così basso comporta lo sfruttamento di una classe di persone per cui questo lavoro è l’unica possibilità di sopravvivenza, cosa che porta a un’impossibilità di negoziazione di condizioni attualmente al limite quasi della schiavitù; pur di avere un lavoro, persone si devono rassegnare a turni massacranti e sottopagati, senza poter chiedere nulla di più sotto minaccia di perdere il lavoro, continuando così a lavorare secondo l’idea di un pessimo lavoro è meglio che nessun lavoro.
Questo problema purtroppo non si ferma ai brand di fast fashion ma è presente anche nella produzione di alcuni marchi di luxury, soprattutto, come ci racconta il documentario “Luxury: behind the mirror of high end fashion”, per quelle categorie che creano maggior prodotto all’azienda come la pelletteria e la pellicceria. Persino brand di lusso con margini di guadagno molto alti ricorrono a subcontractor all’interno delle cui aziende la linea tra legale e illegale sfuma fino a sparire, creando un ambiente di lavoro pericoloso e socialmente non sostenibile.
La presenza di questi docufilm è quindi fondamentale, in quanto permette al cliente finale di prender coscienza di tali verità è rimette a ciascuno la responsabilità del proprio comportamento a riguardo di ciò che ha appena scoperto; viene chiamato in causa il singolo e gli si chiede di valutare se questo sistema che gli permette di comprare vestiti a così buon mercato per portare una temporanea sensazione di soddisfazione vale la tragedia che ciò comporta per altri milioni di persone.