Questa è una di quelle notizie così nocive per il pianeta da sembrare anacronistiche. Ancor di più nel 2021, anno in cui secondo l’Iea lo sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio e gas dovrebbe fermarsi se il mondo vuole raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050.
Eppure, il petrolio minaccia la riserva di Okavango, una delle ultime aree selvagge del continente africano.
Il Delta dell’Okavango:
La riserva naturale del Delta Okavango prende il nome dall’omonimo fiume, e si estende tra il Botswana e la Namibia, ai bordi del deserto del Kalahari. Presentando uno degli ecosistemi più insoliti del pianeta, questa zona è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’Umanità nel 2014. La vegetazione lussureggiante e l’acqua sorprendentemente pura del fiume, danno vita ad un habitat animale ideale durante le inondazioni stagionali.
Non a caso ben 130mila elefanti hanno scelto da decenni il Delta dell’Okavango come loro dimora. La riserva ospita anche numerose tribù, di cinque diverse etnie. Questo meraviglioso luogo deve la sua straordinaria bellezza alla quasi totale assenza di attività agricole o industriali, ma pare che presto, anche questo paradiso subirà l’effetto della “civiltà” umana.
Il caso di ReconAfrica:
La società di gas e petrolio ReconAfrica, con base in Canada, ha avviato un’attività esplorativa nel Delta dell’Okavango, definita da Oilprice.com “la più grande azione petrolifera mondiale del decennio”. Dopo aver affittato più di 34000 km² di terreno, ReconAfrica è partita con le trivellazioni, e stima che il potenziale petrolio generato nel proprio impianto potrebbe essere compreso tra 60 e 120 miliardi di barili.
Nonostante le rassicurazioni della società canadese riguardo i cosiddetti “metodi sostenibili” utilizzati e la massiccia presenza di riferimenti alla sostenibilità sul loro sito internet, l’effetto che si ottiene è un ossimorico accostamento tra petrolio e “impegno nella protezione ambientale”. Non è infatti plausibile affermare di agire secondo ambiziosi criteri green quando si mette a repentaglio un prezioso ecosistema del nostro pianeta.
Negli ultimi mesi nell’area dell’Okavango sono stati trovati morti più di 300 elefanti. Gli esperti hanno escluso il bracconaggio (le zanne degli animali erano intatte) adducendo la causa ad una fioritura anomala di alghe tossiche, causata dai cambiamenti climatici. Tuttavia questa spiegazione potrebbe essere solo parziale. Le potenti vibrazioni causate dalle perforazioni petrolifere disturbano e disorientano i pachidermi, rendendoli vulnerabili e confusi.
Nnimmo Bassey, direttore della Health of Mother Earth Foundation e presidente di Oilwatch Africa afferma: «Gli elefanti evitano le aree dove c’è attività umana, dove c’è rumore e quello che vedono come un pericolo. Questo può allontanarli dalle loro antiche rotte migratorie e avvicinarli a villaggi e aree agricole, portando a un conflitto umano-elefante».
L’impatto ambientale:
Dai pozzi, alle raffinerie, alle nuove strade per il trasporto dei barili, ogni elemento di questo progetto petrolifero mette a rischio non solo la più grande mandria di elefanti rimasta al mondo, ma anche le 200mila persone che vivono nella zona. Tra queste anche la tribù degli indigeni San, i più antichi abitanti dell’Africa australe.
Secondo il WWF le infrastrutture necessarie prevedono “la costruzione di strade, oleodotti e gasdotti, nonché edifici”, tutte realizzazioni che “potrebbero avere un impatto negativo su importanti habitat di animali e sulla biodiversità”.
In particolare, a destare preoccupazione è il metodo di estrazione utilizzato, detto fracking. Questo processo è efficace per ottimizzare la resa dell’estrazione di petrolio e gas dalle rocce, ma richiede grandi quantità di acqua. Inoltre è causa nota di terremoti, inquinamento delle acque, rilascio di gas serra nonché di maggiore incidenza di tumori e malformazioni congenite.
Incredibilmente non c’è nessuna tutela ad oggi per l’Okavango.
Nonostante il vero oro non sia più il petrolio, bensì l’acqua, questa enorme riserva idrica naturale di ben 7.560.000 miliardi di metri cubi d’acqua rischia di andare distrutta, insieme alla sua fauna e flora rarissime. Un sacrificio che non possiamo permetterci, fatto nel nome di posti di lavoro e barili di petrolio.
Se questa è l’evoluzione, non è un granché.