Fast o Slow?
Cibo, modelli di vita, abitudini quotidiane: tutto ciò che ci circonda e ogni azione che compiamo può appartenere ad una di queste due categorie.
Dagli anni ’50 ad oggi, il prefisso “Fast” ha invaso il linguaggio comune, assumendo dapprima una connotazione rivoluzionaria e fresca, che a lungo andare, però, si è trasformata in una percezione di insostenibile consumismo.
Fast Food e Fast Fashion, due grandi miti dell’era moderna, che dopo essersi evoluti e moltiplicati in ogni direzione possible, arrivando a governare il mercato, iniziano a ridimensionarsi sempre di più.
Vivere velocemente è per molti una necessità, ma quanto è bello scalare le marce, prendersi il proprio tempo, gustare oggetti ed esperienze, insomma, ascoltare la parte “Slow” di noi stessi?
E’ in costante crescita il numero di persone che preferisce lo slow food, per sapere da dove viene il cibo che mangia, e la slow fashion, per capire la provenienza di ciò che indossa, ma ci siamo mai chiesti da dove viene l’ultimo mazzo di fiori che abbiamo comprato? E l’ultima pianta che abbiamo regalato?
Slow Green, ormai lo avrete intuito, è una filosofia globale, nata negli USA nel 2013, che crede nella produzione e nella distribuzione etica e sostenibile di fiori e piante.
Le parole d’ordine sono stagionalità e biodiversità, nel totale rispetto dei tempi della natura.
Agli antipodi della coltivazione in serra, costellata da pesticidi e fertilizzanti, la coltivazione slow non richiede all’uomo alcun intervento, se non quello di preservare e agevolare la crescita naturale del prodotto.
I semi e il polline delle piante vengono diffuse dal vento, dagli uccelli e dagli insetti, arricchendo l’ecosistema, senza mai privarlo dei suoi ritmi.
L’esigenza di prestare la massima attenzione ad una produzione botanica sostenibile nasce dallo spasmodico incremento che serre intensive e coltivazioni artificiali hanno avuto negli ultimi decenni.
La domanda perenne di piante ornamentali e fiori non si cura dell’andamento delle stagioni, e nemmeno della provenienza dei prodotti, arricchendo così una grossa fetta di produttori esteri, che sfruttano risorse naturali in maniera spregiudicata.
L’esempio più lampante è quello del Kenya, dove, in pochi anni, la produzione di rose è diventata una fonte di sostentamento importantissima, nonché l’1% del PIL keniota, facendo del fiore simbolo di amore e passione il secondo prodotto più esportato dopo il tè.
Sembra incredibile che una rosa fresca aquistata a Roma possa provenire da uno stato centrafricano, eppure: secondo il report annuale dell’International Statistics Flowers and Plants, l’87% dei fiori prodotti in Kenya raggiunge l’Europa per via aerea, di questi il 4,3% arriva in Italia.
Per leggere questo dato è necessario considerare che il lungo viaggio di questi steli non è diretto, ma fa tappa in Olanda, punto nevralgico di smistamento, la quale rifornisce poi gli altri stati europei.
Questa filiera così contorta è possible grazie alla grande competitività dei prezzi kenioti, che, purtroppo, sono giustificati anche dallo sfruttamento della mano d’opera.
Un bracciante è pagato in media 89$ al mese, per un totale di poco più di 1000$ all’anno.
La quasi totalità delle serre del Kenya si concentra intorno al lago Naivasha. Si tratta di 150 aziende (non tutte locali, molte sono infatti di proprietà olandese), che insieme utilizzano circa 47 miliardi di litri d’acqua all’anno (9 per ogni stelo coltivato), oltre ad una quantità incalcolabile di pesticidi e di agenti chimici.
Il lago Naivasha costituisce l’unica fonte di approvvigionamento idrico per 650mila persone, le sue riserve idriche non sono tuttavia illimitate; di fatto il livello dell’acqua si è già abbassato di più di 4 metri, rendendo palese l’altissimo rischio per uomini ed ecosistema.
La storia del Kenya non è isolata, nel palmarès dei grandi floricoltori intensivi ci sono anche Colombia, Equador ed Etiopia, proprio in quest’ultimo stato africano molte aziende (sempre di matrice olandese) hanno creato dal 2002 un nuovo polo, del tutto simile a quello keniota, nella cittadina di Ziway. Qui le condizioni salariali sono addirittura peggiori: i lavoratori percepiscono meno di 30$ mensili, inoltre i controlli sull’impatto ambientale sono pressoché nulli.
Il governo etiope sostiene in maniera indiscriminata gli investimenti esteri, senza porre condizioni, e senza salvaguardare i suoi stessi cittadini, puntando ad ottenere maggior gettito fiscale.
Abbracciare la filosofia Slow Green permette di non foraggiare queste tristi realtà, rendendoci consapevoli delle innumerevoli ramificazioni economiche e sociali che si nascondono dietro ogni singolo prodotto che consumiamo, anche se si tratta di un ‘innocuo’ tulipano.
Comprare fiori e piante a Km 0 è un privilegio e, spesso, soprattutto nelle grandi metropoli, sembra impossibile potersi recare da un produttore diretto, ma approfondendo il tema ecco che si scoprono molti modi per ottenere una pianta o un bouquet slow green.
- Tanto per cominciare, può arrivare lui da noi, e non viceversa. Sono tantissimi ormai i fioristi e i flower designer che vendono online. Fidatevi dei piccoli shop, partendo nella ricerca da Instagram o da Etsy (canali social privilegiati per chi vuole farsi conoscere nel settore), e accertatevi con una semplice domanda sulla provenienza delle materie prime.
- Esistono numerose “Flower Farms” sul territorio italiano, che garantiscono prodotti nati e cresciuti direttamente nella propria azienda, tra queste vi segnaliamo il collettivo “Italian Flower Farm”, che riunisce vari floricoltori slow green.
- Un altro modo per prendere parte in prima persona alla coltivazione e alla crescita dei prodotti è quella di entrare in un “giardino di quartiere”. In città come Milano e Roma, iniziative aggreganti come questa sono sempre più numerose. Spesso situato nello stesso spazio dell’orto di quartiere, il giardino è uno spazio condiviso, in cui ci si incontra per i più svariati tipi di eventi, oltre che per prendersene cura con dei turni specifici, garantendo poi a tutti gli affiliati una quantità di prodotti stagionali da poter portare a casa.
- Il passo più semplice e concreto che possiamo fare è chiedere al nostro fiorista e vivaista di fiducia da dove provengano i prodotti in vendita, verificando se lui stesso abbia a cuore il tema della tracciabilità e della sostenibilità.
Aquistare secondo un’etica Slow Green tutela non solo l’ambiente e la biodiversità, ma anche la salute di noi consumatori, ed è un ottimo modo per sostenere l’economia locale, cosa di cui, soprattutto oggi, c’è forte necessità.
Diamo alle nostre piante una svolta Slow, d’altronde “le cose belle hanno il passo lento”.