La confusione sul concetto di greenwashing è ormai tale che persino molti designer tessili cercano di evitare di associare il proprio marchio a questo termine, sebbene sia comune che greenwashing e moda sostenibile vengano associati.
Greta Thunberg è una figura di spicco su questo tema. Si è espressa sulla questione, denunciando che l’industria del fast fashion sta ingannando le persone con il greenwashing e invitando gli influencer e i media a sensibilizzare l’opinione pubblica sul rapporto tra moda e crisi climatica.
Ma cosa si intende per greenwashing?
Il termine greenwashing si riferisce alla pratica scorretta della strategia di marketing quando le aziende affermano che un prodotto è sostenibile o che adotta pratiche che riducono l’impatto ambientale, quando oggettivamente non è così.
Questo termine è stato originariamente utilizzato negli anni ’80 dall’attivista ambientale Jay Westerveld in un saggio su una rivista.
Con la crescita dell’interesse per la sostenibilità, cresce anche il greenwashing. Questo accade perché le aziende, approfittando della crescente preoccupazione per le questioni ambientali, creano un’immagine aziendale positiva per attirare l’attenzione dei consumatori con affermazioni ingannevoli o addirittura spesso false, con il risultato di aumentare le vendite e, di conseguenza, i profitti.
Può la moda realmente essere sostenibile?
In relazione all’industria tessile, esiste una contraddizione tra moda e sostenibilità, soprattutto perché la maggior parte delle aziende ha un modello di business basato sulla produzione su larga scala. Molto spesso i capi, sia per la scarsa qualità oppure perché le nuove tendenze li rendono “vecchi”, vengono scartati. Questo crea un elevato spreco di materie prime e risorse, senza tenere conto dell’impronta ambientale e delle sue conseguenze.
In base alla media, i consumatori indossano i loro vestiti da sette a dieci volte prima di gettarli via. Questo atteggiamento è sostenuto dalle aziende del fast fashion, che sono responsabili d’incoraggiare il consumo eccessivo, per continuare a produrre tonnellate di capi ogni giorno, a basso prezzo e con maggiori profitti.
Non sorprende quindi che le aziende di fast fashion siano il settore dell’industria della moda in più rapida crescita negli ultimi 20 anni.
Dati errati, ma solo sulle etichette
Il problema principale del greenwashing nell’industria della moda inizia con informazioni fuorvianti e affermazioni ingannevoli che un prodotto è sostenibile senza presentare alcuna prova certa che lo sia effettivamente. L’obiettivo è quello d’indurre ai consumatori ad acquistare un prodotto “verde”, che in realtà non lo è a causa dei materiali utilizzati o delle modalità di produzione.
Sebbene l’industria della moda stia attualmente dimostrando sforzi per ridurre il proprio impatto ambientale, la disinformazione rende più complicato il lavoro di costruzione di un’industria veramente sostenibile. Il risultato è che i consumatori che vogliono acquistare in modo responsabile sono confusi dal fatto che una collezione o un’azione venga mascherata come “sostenibile”.
Casi reali
Casi reali sono quelli di H&M, che ha introdotto un sistema di punteggio di sostenibilità per i suoi prodotti online come parte di una tendenza verso una maggiore trasparenza. Un altro caso è quello di Zara, che a novembre ha lanciato nel Regno Unito “Zara Pre-Owned”, un servizio di rivendita, riparazione e donazione nell’ambito del suo impegno per la circolarità, per aiutare i clienti a prolungare la vita dei loro prodotti.
Come il gigante Inditex, altre aziende del fast fashion hanno lanciato piattaforme di rivendita. L’azienda di moda ultrarapida SHEIN ha introdotto “SHEIN Exchange”, una piattaforma di rivendita integrata nella sua applicazione mobile in cui gli utenti possono comprare e vendere gli abiti del marchio che hanno precedentemente acquistato.
Ma come ha detto Maxine Bédat a Vogue “Quando si fa credere alle persone che un prodotto può essere riciclato o avere una seconda vita, […] le persone finiscono per consumare ancora di più il bene primario, perché viene visto come un acquisto senza conseguenze“. Il risultato è stato solo che il problema non è stato risolto alla radice, ma mascherato sotto un altro nome.
Influenza dei social media
Non è comunque estraneo il fatto che il consumo di moda veloce e ultraveloce abbia origine anche dai contenuti che i marchi di moda pubblicano sui loro social network. La continua pubblicazione di prodotti e l’uso d’influencer per attirare le loro migliaia di follower creano una costante necessità e domanda di consumo.
Ne sono un esempio i capi di moda che gli influencer pubblicano quotidianamente sulle loro piattaforme. L’unico obiettivo è quello di mostrare gli acquisti recenti di abiti e accessori, soprattutto di marchi di fast fashion, creando un desiderio di acquisto nei loro follower.
Un altro esempio è il marchio di fast fashion Boohoo, che ha recentemente nominato Kourtney Kardashian come collaboratrice “per la sostenibilità e lo stile”. Secondo le parole del marchio: “con questa collezione abbiamo considerato la sostenibilità sotto molti aspetti, introducendo capi vintage, materiali riciclati ed etichette che includono gli scarti della produzione del mais”.
Ma una piattaforma di rivendita o una campagna pubblicitaria ingannevole non rendono un’azienda sostenibile da un giorno all’altro.
È possibile trovare una soluzione?
In assenza di un’adeguata regolamentazione in questo settore, sono nate iniziative da parte di organismi di regolatori impegnati nella sostenibilità. Hanno avviato indagini e stabilito alcune linee guida contro il greenwashing. Tuttavia, le principali critiche delle organizzazioni ambientaliste si basano sul modo migliore per misurare e diffondere l’impatto ambientale della moda.
Non c’è dubbio che l’attuale problema dell’industria della moda sia la mancanza di trasparenza. Il mezzo più efficace per combattere questo fenomeno è un’informazione veritiera che aiuti a comprendere l’impatto negativo dell’industria e a partecipare a un consumo responsabile.
Grazie a organizzazioni come Fashion Revolution, la Clean Clothes Campaign e la Ellen MacArthur Foundation, i consumatori possono iniziare a chiedersi se si tratta di un comportamento responsabile nei confronti dell’ambiente, o se si tratta solo di greenwashing. Allo stesso tempo, trattandosi d’informazioni pubbliche, diventa uno strumento di pressione sulle aziende affinché apportino cambiamenti duraturi al loro modello di business.
Dove trovare altre informazioni?
Per rimanere informati e trovare tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno possiamo cercare sui social media e seguire attivisti come Sophie Benson, Stacey Dooley, Meg Doyle, Clare Press, Maxine Bédat o Venetia La Manna o usare applicazioni come good on you.
Come consumatori che amano la moda, prendiamoci cura dei nostri vestiti. Possiamo anche cercare di ridurre gli acquisti di fast fashion, ma senza demonizzare, compriamo semplicemente ciò che è necessario senza perdere di vista le cinque R della moda: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, Riparare, Rivendere.
E ricordate sempre le parole di Vivienne Westwood: Compra di meno. Scegliere bene. Fallo durare.