Cotone cinese: cosa sta succedendo

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Belen Espino
By
Anna Quirino

Ha avuto risonanza mondiale la notizia che alcuni colossi della moda, come H&M, Nike, Adidas, Tommy Hilfiger, Converse, Burberry e New Balance hanno sospeso l’uso del cotone cinese, proveniente dalla regione dello Xinjiang

Il 21 ottobre 2020 la Better Cotton Initiative, associazione statunitense che ha lo scopo di “rendere sostenibile la produzione di cotone in 26 Paesi del mondo”, ha annunciato di aver interrotto le sue attività in Cina, nella regione dello Xinjiang. Poco prima il Worldwide Responsible Accredited Production, organizzazione statunitense il cui obiettivo è promuovere una produzione sicura, umana ed etica nel mondo, aveva fatto lo stesso.

Raccoglitore di cotone nello Xinjiang

Il 13 gennaio 2021 gli Stati Uniti hanno imposto un veto alle importazioni di cotone cinese, asserendo che fossero il prodotto del lavoro forzato della comunità musulmana degli uiguri cinesi, detenuti in campi di “rieducazione”. Altri paesi, fra i quali quelli dell’Unione Europea, hanno aderito al veto poco dopo.

Chi sono gli uiguri e cosa succede nello Xinjiang

Gli uiguri sono una minoranza etnica turcofona e di religione musulmana che vive nella provincia nord-occidentale dello Xinjiang, in Cina.

Amnesty International ha denunciato, attraverso un rapporto, che uiguri, kazachi e altre minoranze etniche musulmane subiscono dalla Cina imprigionamenti di massa, torture e persecuzioni. Queste si configurano come crimini contro l’umanità.

In tutto lo Xinjiang le autorità cinesi hanno realizzato sofisticati sistemi di sorveglianza e costruito centinaia di centri per la “trasformazione attraverso l’educazione”. Questi centri sono veri e propri campi d’internamento. “Nello Xinjiang le autorità cinesi hanno dato vita a un inferno distopico di dimensioni gigantesche – ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International – Gli uiguri, i kazachi e le altre minoranze musulmane subiscono crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani che minacciano di radere al suolo le loro identità culturali e religiose”.

Dal 2014 la Repubblica Popolare Cinese ha perseguito una politica che ha portato oltre un milione di musulmani ad essere detenuti in campi di rieducazione. Su circa 11 milioni di uiguri presenti in Cina, 1-3 milioni sono detenuti in campi di rieducazione statali. Tra le politiche in vigore: repressione delle pratiche religiose e culturali uigure, indottrinamento politico, maltrattamenti e violazioni dei diritti umani, tra cui sterilizzazione forzata e contraccezione.

Uiguri durante una repressione

USA vs. Cina: divieti e conseguenze del ban sulle importazioni di cotone cinese

Secondo una stima, mezzo milione di uiguri e altre minoranze musulmane sono costrette a lavorare nei vasti campi di cotone della regione dello Xinjiang, da cui deriva un quinto del cotone mondiale – 5,16 milioni di tonnellate prodotte solo nel 2020. 

L’amministrazione Trump ha vietato le importazioni di cotone cinese, a meno che gli importatori non riescano a dimostrare che non producono attraverso il lavoro forzato. Anche l’amministrazione Biden ha portato avanti questa politica, definendo la situazione degli uiguri un “genocidio culturale“.

Il 24 marzo 2021, le principali piattaforme e-commerce cinesi, come Tmall, Taobao, JD.com e Pinduoduo, hanno oscurato H&M. Nei giorni successivi Nike, adidas e Burberry hanno perso numerosi brand ambassador ed influencer cinesi, tra cui Wang Yibo, Huang Xuan e Victoria Song, che hanno rescisso i propri contratti e messo fine alle loro collaborazioni. Anche il videogioco Honor of Kings ha annullato la sua collaborazione con Burberry.

Inditex e Hugo Boss non hanno aderito al veto del cotone adducendo come ragione l’elevata qualità del cotone cinese. Le giapponesi Mizuno e World, invece hanno deciso di smettere di usare il cotone dello Xinjiang. Tra le aziende occidentali che hanno aderito a questo ban anche Uniqlo, Converse, Tommy Hilfiger e Calvin Klein.

La difesa della Cina

Il media statale cinese CGTN ha condiviso diversi video su Weibo in cui affermava di mostrare la realtà della raccolta del cotone nello Xinjiang. I video includono le testimonianze di agricoltori uiguri che affermano che le persone “combattono” per lavorare lì dati i guadagni elevati.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a diversi funzionari cinesi. Pechino ha sempre reagito chiedendo un confronto e negando i maltrattamenti nei confronti della minoranza uigura. Le azioni nello Xinjiang, secondo il governo cinese, sono intraprese per combattere il terrorismo. La scarsità di rapporti indipendenti nello Xinjiang rende difficile valutare la portata degli attacchi terroristici e militanti lì, ma non c’è dubbio che la regione abbia subito molteplici assalti mortali contro obiettivi civili, militari e governativi negli ultimi dieci anni.

La portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha paragonato i raccoglitori di cotone uiguri dello Xinjiang ai lavoratori delle piantagioni nel sud degli Stati Uniti, accusando il Paese nordamericano di ipocrisia. Hua ha posizionato una foto dei coltivatori di cotone del Mississippi accanto a un’immagine di tre lavoratori uiguri sorridenti mentre raccolgono il cotone.

Lavoratori delle piantagioni USA

Chunying ha ribadito in un briefing con la stampa nel maggio 2021 che l’accusa di lavoro forzato nello Xinjiang è una bugia. Per Chunying chi in Occidente pubblicizza la questione per danneggiare le aziende cinesi lo fa per rovinare lo Xinjiang e la Cina.

Inoltre, nel giugno 2021, la China Cotton Association (CCA) ha lanciato un programma di sviluppo sostenibile chiamato Cotton China. L’obiettivo è quello di costruire uno standard e un sistema di certificazione sostenibili indipendenti per contrastare il dominio dell’Occidente. Finora sono stati formulati standard per la gestione della produzione di cotone e firmati contratti con vari produttori.

Il futuro del cotone cinese

L’industria del lusso dipende dalla Cina, dal suo mercato e dal potere di acquisto dei suoi abitanti: allo stesso tempo, però l’eticità delle proprie pratiche è diventata un importante selling point per i brand di moda.

Il ricco mercato cinese ha ostracizzato, tramite campagne social e azioni politiche, tutti i brand che hanno sollevato domande scomode sulla natura dei “campi di rieducazione”. Al contrario, i brand che promuovono con orgoglio l’uso del cotone dello Xinjiang riscuotono più vendite e successo.

Se il cotone dello Xinjiang non può essere rimosso dalla catena di approvvigionamento, le aziende di abbigliamento che lo impiegano saranno soggette ad azioni esecutive in base ai vari divieti di importazione e accusate di complicità nella repressione uigura. Tuttavia, abbandonare il cotone dello Xinjiang causerà problemi: i consumatori cinesi considerano questa questione una cospirazione occidentale per minare lo sviluppo della Cina.

Pur spostando la produzione da fabbriche in Cina a fabbriche in paesi come Vietnam, Cambogia e Bangladesh, il cotone dello Xinjiang non sparisce: secondo i dati dell’International Cotton Advisory Committee della Washington International Trade Association, la Cina esporta cotone grezzo in 14 paesi tra cui Vietnam, Thailandia, India, Pakistan e Bangladesh ed esporta in 190 paesi filati. L’abbigliamento realizzato con il cotone dello Xinjiang è ovunque.

Le possibilità per l’Occidente

Proteggere le proprie vendite in Nord America ed Europa o mantenere il mercato in Cina? Bilanciare le due cose sarà sempre più difficile. Volendo evitare danni economici, i grandi nomi della moda potrebbero tenersi lontani dalla questione o esporsi e denunciare la situazione facendo fronte comune. A quel punto sarebbe complicato oscurarli tutti o ostacolare i loro business in Cina. Tuttavia rimarrebbe il problema dell’opinione pubblica nel paese, che accusa i brand di aver offeso il Paese.

Stabilire dove sia la verità è ad oggi complesso. Né gli Stati Uniti né la Cina hanno fornito prove concrete dell’esistenza o meno dei campi di correzione per gli uiguri. Anche i video diffusi dalla Cina in realtà non mostrano le effettive condizioni lavorative degli agricoltori.