Oggi non si può parlare di sostenibilità nella moda senza parlare di colonialismo. Si pensa spesso al colonialismo come ad un momento storico lontano nel tempo; tuttavia guardando alle strutture sulle quali l’industria della moda si regge, diventa chiaro che la colonizzazione è ancora profondamente radicata nel settore. Per questo decolonizzare la moda diventa fondamentale.
Colonialismo nella moda: cosa significa
L’industria della moda lavora estraendo risorse dal Sud del mondo, come il cotone, utilizzando processi degradanti per l’ambiente come l’agricoltura industriale (fertilizzanti, pesticidi, semi OGM) e il lavoro forzato, a volte anche minorile.
La manodopera viene sfruttata, ricercando prezzi sempre più bassi e pagando salari minimi e condizioni di lavoro non sicure.
Le rotte commerciali utilizzate oggi per scambiare lavoro, risorse e merci sono in gran parte le stesse di un secolo e mezzo fa. Le rotte utilizzate dagli europei per trasportare zucchero e caffè dal continente americano sono le rotte utilizzate oggi per portare la moda ai consumatori occidentali.
Così come i sistemi coloniali del passato si basavano sul lavoro forzato e su altre forme di sfruttamento, le aziende della moda di oggi continuano a sfruttare e trarre profitto da una forza lavoro vulnerabile composta principalmente da donne in paesi come Bangladesh, Vietnam, India ed Etiopia.
Dopo lo scoppio della pandemia da COVID-19, nei mesi di marzo e aprile 2020 c’è stata una diminuzione delle vendite al dettaglio in Europa e Stati Uniti. Di conseguenza, i grandi marchi hanno annullato ordini per miliardi di dollari. Il “Center for Global Workers’ Rights” ha scoperto che le aziende dovevano pagare 16,2 miliardi di dollari nei tre mesi da aprile a giugno 2020. Rifiutandosi di pagare ordini in produzione o già prodotti, le grandi aziende hanno lasciato fabbriche di paesi come il Bangladesh con fondi insufficienti per retribuire i lavoratori.
Appropriazione culturale e standard eurocentrici
Un altro modo importante in cui la colonizzazione è incorporata nella moda oggi è attraverso la cultura. La moda è stata e continua a essere uno dei principali motori della promozione degli standard di bellezza eurocentrici.
Questi standard di bellezza appaiono sulle copertine dei giornali, nelle sfilate e nelle campagne pubblicitarie, anche in riviste rivolte a paesi al di fuori dell’Europa o degli Stati Uniti.
Tuttavia, i problemi non riguardano solo l’esclusione delle culture emarginate. A volte possono riguardare l’inappropriata “inclusione” di alcuni elementi di una cultura emarginata da parte della cultura dominante. Questo uso improprio di modelli, simboli, stili e altri elementi specifici è indicato come appropriazione culturale. Il rischio di tale appropriazione è che gli elementi “inglobati” dalle altre culture possano un giorno essere completamente dissociati dalla loro comunità di origine.
C’è una linea sottile tra appropriazione culturale e apprezzamento culturale e il trade-off tra le due è proprio l’inclusione, nella narrazione, delle culture minoritarie da cui i valori o le idee sono presi in prestito. Usare una parte della cultura di qualcuno come ispirazione ed escludere anche le persone di quella cultura è una forma di furto. L’appropriazione culturale è terribile per il sottile messaggio che trasmette: “la tua cultura non è accettabile, finché non diciamo che lo è”.
Appropriazione culturale: qualche esempio
Non è raro che questo accada nell’industria della moda. Nel 2011 Urban Outfitters ha lanciato una linea di abbigliamento e accessori a tema Navajo ed alcuni membri della comunità indigena hanno ritenuto questa collezione “culturalmente offensiva”. La disputa è arrivata in tribunale e si è conclusa nel 2016.
Tre anni dopo, nel 2014, la stilista francese Isabel Marant è stata accusata di aver plagiato la tradizionale camicetta Tlahuitoltepec della comunità indigena Mixe in Messico. Nel 2017 il brand canadese Ports 1961, ha lanciato delle magliette recanti gli slogan “Only Love Matters” e “Every Color Matters”, che gli utenti dei social media hanno ritenuto sminuire il messaggio del movimento Black Lives Matter e appropriarsi delle espressioni culturali di un gruppo minoritario.
Più recentemente, nel gennaio del 2020, Comme des Garçons è stato accusato per aver fatto indossare parrucche cornrow ai suoi modelli bianchi durante lo show della settimana della moda di Parigi. Rispondendo alle critiche, l’hairstylist Julien d’Ys si è scusato e ha chiarito che non aveva intenzione di “ferire o offendere nessuno”. d’Ys ha difeso l’uso delle treccine su questi modelli, affermando che era un’ispirazione e un omaggio a un principe egiziano.
Per evitare di macchiarsi di appropriazione culturale è fondamentale l’informazione: leggere e studiare permettono di avere gli strumenti giusti con cui approcciarsi alle altre culture. È importante, inoltre, rendere omaggio agli artisti e alle idee e riconoscere le loro origini.
Come contribuire a decolonizzare la moda
Sono tante le attiviste che si battono per decolonizzare il mondo della moda e appartengono soprattutto al movimento “BIPOC”, che letteralmente sta per “black, indigenous and people of color” (neri, indigeni e persone di colore).
Come contribuire alla decolonizzazione della moda? Un primo passo per decolonizzare la moda potrebbe essere quello di seguire influencer e content creators BIPOC, nonché di acquistare da brand o negozi vintage di proprietà della comunità. Bisogna imparare a ripensare e ristrutturare i sistemi esistenti: Remake ha recentemente lanciato la campagna “Pay Up Fashion”, che contiene sette azioni che le aziende dovrebbero intraprendere per avere un’industria più equa. Tra queste: mantenere i lavoratori al sicuro; diventare trasparente divulgando salari e pubblicando gli audit; far firmare contratti esclusivi ai lavoratori; ecc.
Credo che i marchi debbano non solo chiedersi “questo prodotto fa il minor danno possibile?”, ma anche “fa davvero bene ai produttori e al futuro del nostro pianeta?”. Dalla materia prima al fine vita, i marchi dovrebbero concentrarsi sulla protezione del benessere delle persone nell’industria della moda e sulla tutela dell’ambiente”.
Ayesha Barenblat, fondatrice di Remake
Importante per decolonizzare la moda è anche rallentare e produrre di meno. Bisogna spingere per avere un movimento della moda sostenibile che sostenga lo scambio e lo shopping di seconda mano. Dobbiamo entrare in una nuova era in cui ridefinire il lusso. Invece di essere un sogno elitario e irraggiungibile che riflette i valori coloniali, la moda dovrebbe includere il rispetto dei diritti umani e dei valori ambientali.
Donne al lavoro per decolonizzare la moda
Aditi Mayer
Aditi Mayer, giornalista, public speaker e consulente di Los Angeles, ha fondato il blog “ADIMAY“, fucina di una narrazione responsabile e inclusiva che tocca temi come decolonizzazione, equità ambientale e sfruttamento di risorse limitate. L’ispirazione per il suo blog è arrivata dopo il crollo della fabbrica tessile Rana Plaza (nella quale si produceva per Benetton, gruppo Inditex, Mango, Primark,…), avvenuto nel 2013 in Bangladesh, che ha causato la perdita di numerose vite.
Dobbiamo chiederci perché l’industria della moda ha normalizzato lo sfruttamento del lavoro e il fatto che la moda sostenibile sia un’industria di nicchia, con un enorme price gap che influenza chi vi può partecipare.
La cultura occidentale l’ha ricontestualizzata come atto di consumo e questo e può essere molto dannoso in termini di come vediamo il nostro coinvolgimento in questo movimento.
Aditi Mayer intervistata da Green Dreamer
Brittany Sierra
Imprenditrice ed esperta di sostenibilità, nel 2017 Brittany Sierra ha fondato il “Sustainable Fashion Forum”, dopo aver notato l’assenza di una community IRL che tracciasse una linea diretta tra i consumatori e gli attori del settore fashion. SFF organizza anche una conferenza annuale che si tiene a Portland, Stati Uniti, e che ospita aziende come Adidas, ThredUP e Fashion Revolution.
Essere una donna di colore nell’industria della moda sostenibile significa avere la responsabilità di mostrare ad altre persone di colore che c’è un posto per loro in questo mondo. Significa essere visibile, condividere la mia voce e fare il possibile per rendere il settore che amo un posto adatto a tutti, dove sentirsi i benvenuti.
Brittany Sierra intervistata da Refinery29
Kimberly Jenkins
Docente presso la Parsons School of Design, ha inventato il corso di “Fashion and Race“, curando successivamente una mostra omonima presso la scuola. Oggi insegna presso la Ryerson University di Toronto. Ha lanciato una piattaforma online, “Fashion and Race Database”, pensata per fornire strumenti open source che “sfidano le false rappresentazioni all’interno del sistema”. Ci sono sezioni per libri, film, conferenze, mostre, articoli ed episodi di podcast, oltre a vari saggi e articoli.
Ora è il momento di espanderci, andare oltre l’eurocentricità a cui ci hanno abituati. Questo è anche lo slogan del nostro database: espandere la narrativa della storia della moda. Queste persone sono sempre esistite: designer neri, latini, artigiani indigeni, tutti quanti. Modelli, artisti – sono stati sempre tutti lì, ai margini. È tempo di mettere al centro queste persone e creare una grande storia.
Kimberly Jenkins intervistata da Forbes
Quando si tratta di decolonizzare, si tratta di riflettere su come l’eredità del colonialismo ha plasmato e influenzato ciò che oggi consideriamo bello o “alla moda”. Le cose, per fortuna, stanno già cambiando.