Verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso nasce una nuova corrente artistica, in netta contrapposizione e polemica con l’arte convenzionale. Rifiutando tecniche e supporti comuni, gli artisti che si riconoscono idealmente in questo movimento fanno ricorso ad animali, vegetali e minerali; materiali come terra, legno, ferro, stracci, plastica e scarti industriali sono i loro supporti d’elezione. L’intento non è quello di “affermazione, indicazione di valori, modello di comportamento” bensì comprovare la contingenza e la precarietà dell’esistenza. Questa è l’Arte Povera.
Il riutilizzo di materiale è comune in tutta la storia umana e nondimeno nella storia dell’arte. Rimanendo nel ventesimo secolo, ad esempio, già i dadaisti esplorarono in piena libertà la creatività attraverso il reimpiego di tutti i materiali e le forme disponibili; e, anche attraverso i ready-made, diedero vita alle prime installazioni e performance.
L’Arte Povera come attitudine
Nell’Arte Povera, però, la riscoperta e la scelta di materiali naturalmente disponibili nell’ambiente non nasce da esigenze economiche o di reperibilità, ma da una precisa volontà. È “un’attitudine, la possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale”. Così l’ha descritta il critico Germano Celant, colui che ne coniò il nome in occasione della mostra omonima alla Galleria La Bertesca di Genova nel 1967.
Gli anni Sessanta, del resto, hanno visto emergere prepotentemente le diseguaglianze sociali in seguito al fugace boom economico del dopoguerra, rivelando tutte le debolezze della società dei consumi che si era andata strutturando nel decennio precedente. Come spesso accade, gli artisti anticipano una sensibilità popolare comune percependo per primi il profondo cambiamento dei valori culturali ad essa collegato. Da lì a poco, infatti, queste tensioni esploderanno in conflitto anche armato (e non a caso, forse, “Appunti per una Guerriglia” è il testo nel quale il ventisettenne Celant teorizzava questa nuova forma d’arte).
Giovanni Anselmo: lui
Nel gruppo di artisti che si riconoscevano in questo movimento c’è Giovanni Anselmo (Borgofranco d’Ivrea, 1934). Egli non ha mai frequentato specificatamente scuole d’arte ma, verso la fine degli anni Cinquanta, inizia a lavorare come grafico in uno studio pubblicitario. Nel mentre si esercita autonomamente nelle tecniche pittoriche. Una decina di anni dopo, abbandonerà le sue sperimentazioni per concentrarsi sui primi lavori della sua lunga carriera. Questi rivelano da subito la direzione della sua speculazione: la ricerca della relazione tra l’energia insita nella materia, che si rivela tramite accostamenti di oggetti e di materiali di valenza contraria, in modo da ottenere la massima tensione dal gioco dialettico e dal contrasto fra i diversi elementi.
Il mondo, le cose
In principio, quindi, Giovanni Anselmo esplora le proprietà e i processi fisici che interessano la trasformazione della materia manifestando energia. Gravità, oscillazione, tensione, inerzia, equilibrio, peso sono il fulcro della sua speculazione. In “Torsione”, 1968, la tensione provocata dalla torsione di un panno di fustagno è accumulata e restituita attraverso la reale spinta di ritorno esercitata dalla sbarra di ferro attorno cui è avvolto il tessuto.
Con quest’opera, l’artista dichiara di compiere un gesto: forze e pesi sono coinvolti in reciproca relazione. La scultura, infatti, non giace soltanto sotto il peso della barra ma, grazie alla torsione, esercita una spinta contro il limite imposto dal muro . Di quest’opera ci saranno sei esemplari, tutti datati 1968; questi differiscono leggermente per lunghezza e diametro della barra di ferro, materiale selezionato in virtù del suo peso, e per il colore del fustagno, che ricorda quello di un organo umano (fegato o reni, dichiarerà l’artista), materiale quest’ultimo scelto per la sua resistenza.
In “Scultura che mangia“ (1968, collezione Sonnabend, New York), creazione decisamente provocatoria, avviene il superamento dell’idea di opera d’arte come strumento di trascendenza. Questa è composta da due blocchi di granito, uniti da un filo di rame; nel mezzo si trova, pressata, una lattuga il cui destino inevitabile è il deperimento.
La vita
Tra le cose viventi l’artista scopre anche se stesso nella sua interezza: quella fisica, del corpo e della gestualità, e quella intangibile, come la sua memoria. Attraverso questa vitalità intrinseca, riinizia ad esperire il senso della vita e della natura.
In “Dove le stelle si avvicinano di una spanna in più” (2001-2017) invita l’osservatore a realizzare il desiderio fanciullesco di contemplare più da vicino l’infinita vastità dell’universo. Solo salendo sui 28 blocchi di diorite che la compongono, l’opera si realizza; necessita infatti della partecipazione del fruitore affinchè si crei la situazione, un momento in cui forze come la gravità si concretizzino.
“Io, il mondo, le cose, la vita, siamo situazioni di energia e il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere”.
Profilo riservato, Giovanni Anselmo preferisce non mostrarsi al pubblico e lavorare in solitudine. Seppur essendo internazionalmente affermato nel panorama artistico, rispetto ai colleghi poveristi ha avuto una produzione più contenuta.
Degna di nota è la creazione del suo archivio di conservazione e catalogazione delle opere, che ha iniziato a plasmare nel pieno della sua carriera. Concepito ad uso personale per custodire documenti relativi alla propria attività raccolti nel tempo, l’artista mette a disposizione la documentazione a studiosi interessati, previo consenso.
Nel 2016 gli è stato conferito il Premio Presidente della Repubblica per la Scultura e, per l’occasione, l’Accademia Nazionale di San Luca ha dedicato all’artista una retrospettiva per ripercorrere gli oltre cinquanta anni della sua vicenda artistica.
Per approfondire l’opera di altri artisti: https://www.thegreensideofpink.com/design/arte/2022/alberto-burri/