C’era una volta Gibellina, un piccolo paese su una piccola altura pieno di vita dal sapore contadino e padronale assieme. Oggi quel luogo ospita il Cretto di Alberto Burri, una delle più grandi opere di Land Art.
Nel gennaio del 1968 un forte terremoto colpì la Valle del Belice, distruggendo anche la città di Gibellina, paesino dell’entroterra trapanese. Si trattava del più forte terremoto distruttivo del dopoguerra e nessuno sapeva come gestire l’emergenza. Oggi, vi racconterò una storia di dolore e voglia di rinascita e di riscatto sociale. Vedremo come questi sentimenti incontrarono la natura salvifica dell’arte che, attraverso la mano di Alberto Burri, fermò la memoria storica di quei luoghi restituendone la più grande opera di Land Art al mondo.
Cosa accadde quel giorno?
Trasportate sui camion, le bare si dispersero dal cuore della Sicilia, fino a Palermo, da una parte, e a Catania, dall’altra. Seguivano, per come si poté, i sopravvissuti. Qualcuno ricorda che il giorno prima il freddo era stato così intenso da muovere qualche fiocco di neve. In ogni caso i soccorsi si mossero sul pantano e nel gelo. Erano le 13.28 del 14 gennaio 1968. L’ora delle famiglie riunite a pranzo: la prima scossa di terremoto ribaltò la terra sotto Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale. Poi la seconda scossa, alle 14.15, e fu così forte che la sentirono anche a Palermo e a Trapani. Quella che si abbatté alle 16.48 fu senza pietà per Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice e Santa Ninfa.
La notte fu anche peggio: una scossa alle 2.33, un’altra mezzora dopo.
Cominciò un purgatorio che durò fino a settembre e che fece registrare 345 scosse. La Valle del Belice e i suoi nove paesi non furono più i luoghi riprodotti dalle pagine di Giuseppe Tommasi di Lampedusa. Cinquant’anni dopo il Belice, e la sua mancata o tardiva o parziale ricostruzione, è la narrazione di una disfatta.
A ridimensionare e salvare, l’arte.
Quando ci furono i primi segnali di una rinascita?
Dopo circa un ventennio, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dagli anni Settanta, diede una forte spinta alla ricostruzione di Gibellina e di tutta l’area del Belice. Visionaria e potente fu l’intuizione di partire da una ricostruzione “culturale” prima che edilizia. Persona estremamente sensibile all’arte, aveva molte amicizie tra i grandi architetti e i grandi artisti italiani del tempo a cui lanciò una sorta di invito e “sfida”. Ovvero, sperimentare e praticare l’arte a Gibellina. Era convinto che solo attraverso l’arte queste zone povere e disabitate avrebbero avuto un futuro.
Come rispose la comunità artistica italiana contemporanea?
La risposta fu forte. Moltissimi artisti di fama nazionale aderirono all’invito di Corrao (a titolo gratuito), tra questi Pietro Consagra, Alberto Burri, Ludovico Quaroni, Franco Purini, Laura Thermes, Mimmo Rotella, Mario Schifano e molti altri che arricchirono la Nuova Gibellina di opere di arte contemporanea. Sto parlando di Gibellina “Nuova”, perché quando si presero le decisioni per la ricostruzione si optò di non recuperare l’abitato della vecchia Gibellina ma di trasferire il paese in un pezzo di territorio di Salemi, a circa quindici chilometri di distanza.
L’impianto urbanistico adottato fu tipicamente nord europeo, in contrasto con quella che era la tradizione dei paesi siciliani tipicamente arroccati attorno ad un centro, con una struttura di tipo medievale. Qui gli artisti crearono una città completamente nuova che, paradossalmente, vive una contraddizione tra l’abbandono (sono pochissimi i gibellinesi rimasti) e la presenza di queste opere d’arte estremamente moderne, strane per certi versi, che la rendono assolutamente unica.
Il Cretto di Burri: dalle macerie alla più grande opera di Land Art al mondo, per non dimenticare
Lo shock del cuore è il Gretto di Burri, un’opera di land art realizzata dall’artista Alberto Burri. Un’opera simbolo del Belice anche per i tempi della sua realizzazione: cominciata tra il 1984, è stata inaugurata nel 2015.
Alberto Burri, artista umbro molto importante nel mondo dell’arte italiana del Novecento, giunse negli anni Ottanta a Gibellina ma non amò il nuovo paese e si fece accompagnare sulle rovine della vecchia città. Ne rimase affascinato e decise che era quello il posto dove avrebbe dato il suo contributo artistico. Così progettò il Grande Cretto.
“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”. Burri descrisse così il suo primo impatto con i ruderi di Gibellina.
Cretto di Gibellina, la colata di cemento più bella del mondo
Burri è un artista famoso proprio per i suoi cretti, ovvero superfici scabre che presentano grandi incisioni che esprimono plasticità e, secondo alcuni, delle ferite.
Come un sudario, un labirinto bianco ricopre le macerie: 80.000 metri quadrati di cemento ripercorrono le vie e i vicoli della città vecchia. La modernità del cemento congela la memoria, stigmatizza l’incapacità degli uomini, accoglie il dolore delle vittime. La visione dell’alto permette di scorgere le fratture. Si ripercorre, attraverso i tagli tipici dei cretti, le vie e le piazze della vecchia città, di fatto ricostruendone la topografia.
Sono 80 mila metri quadri di cemento bianco e detriti che raccontano la storia di una città scomparsa dalle cartine geografiche. L’opera venne realizzata tra il 1984 e il 1989, ma solo in parte. Burri purtroppo non vide mai terminato il suo progetto perché morì nel 1995. Ma la Regione Sicilia si prese l’impegno di terminare la sua opera, che fu completata secondo il progetto originario nel 2015.
La ferita nella bellezza della natura e dell’ambiente
Il Cretto di Burri non è uno scempio paesaggistico, critica che nasce dall’utilizzo del cemento. Lo scempio non esiste, il Cretto è un’opera essenziale e futuristica. Il cemento è stato utilizzato come legante con le macerie abbandonate e mai raccolte. È una testimonianza realizzata con gli stessi detriti delle case distrutte. Arte o scempio? Lo giudicheranno i ‘fantasmi’ che si aggirano per quelle strade.
Attraversare quei vicoli, significa sentire la tristezza di una città annientata e i morti causati dal terremoto. Inoltre, l’opera non viola il paesaggio circostante anzi sembra quasi completarlo. Dietro a tutto questo ci sono dieci pale eoliche, simbolo della tecnologia verde che non consuma le risorse del pianeta.
Una piccola curiosità di questo luogo è che spesso diventa location di servizi di alta moda. Inoltre, si svolgono le Orestiadi, in estate, diventando teatro di tragedie greche e rappresentazioni teatrali.
Cosa si prova ad attraversare quello che, dall’alto, sembra un silenzioso dedalo bianco?
È un’opera unica e rappresenta un viaggio suggestivo in una città che non c’è più. Attraversare il Cretto, magari al tramonto, dà vita ad emozioni uniche ripercorrendo solchi che rappresentano le vie e la vita della vecchia città. In silenzio, è il luogo stesso che sussurra la sua storia per una memoria perenne. I vicoli bianchi che oggi percorriamo, simili a delle profonde ferite del terreno, sono gli stessi del centro storico del paese prima del terremoto.
Sotto la superficie rimane una lacerazione, la ferita nella materia. Ecco ciò che avviene nel labirinto del grande cretto dove il paese è perduto, ma il percorso è reale, come in un aldilà di Gibellina. È un paesaggio sospeso nel tempo.
Come disse Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra luce”.
Potrebbe interessarti anche; Le cosiddette Neovanguardie: Arte Povera