Tra le meravigliose opere della Land Art, Robert Smithson si distingue con la sua opera Spiral Jetty, frutto di un’arte ecologica e portatrice di un messaggio di riciclo e salvaguardia dell’ambiente naturale. Prima di parlarvi di questo grande artista, è importante mettere in evidenza il movimento Land Art: una forma d’arte perfettamente integrata con la natura e soggetta alle sue trasformazioni.
Una delle principali conquiste che l’arte mette in atto alla fine degli anni sessanta è quella dell’ambiente. Questa conquista può seguire strade diverse. Se è l’arte ad assumere connotazioni ambientali – a diventare cioè un ambiente visitabile e agibile allo spettatore – si parlerà allora di enviroment, ossia l’ambiente nel suo insieme inteso come opera d’arte. Se invece l’arte esce da questi spazi istituzionali per confrontarsi con uno spazio urbano o naturale, si parlerà di Land Art. Tale definizione, usata per la prima volta come titolo di un film del curatore e gallerista tedesco Gerry Schum, che documentava i lavori all’aperto di alcuni artisti inglesi e americani, può avere ancora una funzionalità, a patto che consenta di distinguere le diverse istanze che spingono gli artisti a uscire dallo studio e ad inoltrarsi nel deserto, sui laghi e nei boschi: istanze che possono avere, di volta in volta, una connotazione minimalista, processuale, concettuale o performativa.
Ciò che è decisivo capire è che, sia negli enviroments sia nei lavori di Land Art, l’opera cessa di essere un oggetto chiuso che può essere esposto in qualsiasi luogo o circostanza, per diventare qualcosa che si relaziona con uno spazio specifico e che spesso non può esistere al di fuori di quello spazio. Il che non significa che tale spazio non possa essere il museo o la galleria, come dimostra ad esempio Etantdonnés di Duchamp, un ambiente realizzato per un contesto specifico (Philadelphia, Museum of Art), né che l’opera ambientale non possa trovare forme per essere documentata, raccontata o ‘esposta’ nel museo o nella galleria.
Nella Land Art, le opere sono figlie di Madre Terra e la loro esistenza è determinata dall’azione degli agenti atmosferici, che possono mutarle o distruggerle. Ma è proprio la loro natura effimera a renderle affascinanti. Questo movimento è una sfida e sono molti gli artisti, soprattutto americani e anglosassoni, che dagli anni Settanta si cimentano nell’incontro-scontro con l’ambiente naturale. Dietro l’ammirazione per sculture monumentali e spettacolari vedute paesaggistiche si nasconde, però, anche un messaggio ecologico. Una critica al consumismo e alla mercificazione dell’arte, per valorizzare invece il tema del riciclo e dello sfruttamento non dannoso di risorse già esistenti. Insomma, l’artista non crea, ma lavora su qualcosa di pre-esistente, in modo da definire un nuovo spazio relazionale per l’osservatore.
Particolarmente significativo, a questo proposito, il lavoro di Robert Smithson (1938-1973). Originario del New Jersey, si presenta come un artista polivalente: scrittore, regista e scultore all’aria aperta, Smithson è il portavoce e il pioniere della Land Art. Tale forma artistica nasce come una delle molteplici sfaccettature dell’arte ecologica, così denominata poiché l’artista si cimenta in un confronto attivo con lo spazio circostante. Dopo il superamento del Minimalismo, in chiave processuale, approda, nei tardi anni sessanta, ai primi earthworks. Smithson si serve di questo termine per definire gli interventi ambientali che realizza in scala crescente dal 1969 all’anno della morte, avvenuta per un incidente aereo mentre sorvolava il sito Amarillo Ramp, il suo ultimo earthwork, nella città di Amarillo in Texas. Le implicazioni processuali del suo lavoro ambientale sono evidenti in Glue Pour (Rampa di colla, 1969), un barile di colla rovesciato su un pendio, in modo tale che la colla, prima di solidificarsi, assuma una conformazione assolutamente casuale: gesto già proposto in scala più grande nei dintorni di Roma due mesi prima, quando Smithson fece rovesciare un carico di asfalto lungo un pendio.
I pochi interventi ambientali successivi sono quasi interamente dominati dalle forme del cerchio e della spirale, quest’ultima emblema della dispersione entropica dell’energia, che secondo Smithson era un concetto chiave della contemporaneità, così come dell’arte. Il più celebre è senz’altro la Spiral Jetty , un molo spiraliforme di pietre, cristalli di sale e fango, che si protende nelle acque del Gran Lago Salato, nello Utah.
Spiral Jetty è una delle più note e più monumentali opere della Land Art. Come numerosi altri lavori di questo tipo, è patrimonio della DiA Foundation di New York, che ne cura la manutenzione e organizza le visite guidate sul sito. L’opera consiste in una lunga striscia di terra, rocce di basalto e cristalli di sale, che si protende sul Lago Salato. Per realizzarla Smithson si è servito di materiale raccolto lungo le sponde.
L’opera instaura una relazione profonda con il territorio circostante. Il Gran Lago Salato è, nelle parole di Smithson, un ‘mare morto’ che si trova in un territorio devastato dall’uomo, che ha cercato di sfruttare al massimo le sue risorse naturali: prima l’oro, poi il sale e il petrolio. La spirale fa di questo incubo ambientale un luogo di pellegrinaggio, attira l’attenzione sulle sue problematiche e ha quindi una connotazione ecologistica. Inoltre la forma della spirale, molto amata dall’artista, allude ad una leggenda locale, che vuole il lago originato da un vortice collegato direttamente al mare.
Segno potente lasciato dall’uomo sul paesaggio, Spiral Jetty è destinato a integrarsi con esso. L’intenzione dell’artista non è quella di creare un’opera che debba mantenere per sempre la sua conformazione originaria, ma far sì che l’opera condivida la vita del paesaggio di cui fa parte. Così il molo, un tempo percorribile, è oggi quasi completamente sommerso dall’acqua, visibile solo dall’areo. Al contempo la conservazione dell’opera diventa anche uno stimolo alla cura del territorio: dal luglio 2009 la DiA Foundation sta lottando contro un progetto che prevede un innalzamento dell’evaporazione, allo scopo di aumentare l’estrazione di solfato di potassio, usato per produrre fertilizzanti. L’operazione riporterebbe la Spiral Jetty a galla, ma avrebbe come conseguenza un ritiro del lago e infliggerebbe un’ulteriore ferita al già compromesso ecosistema della zona.
Tuttavia mi soffermerei ancora un po’ sulla forma a spirale dell’opera, vero focus dell’artista. Smithson la sceglie perché, da sempre, è un simbolo archetipico di vita e di trasformazione e per il suo richiamo immediato alla perfezione del mondo naturale. Non può non saltare alla memoria la geometria aurea del Nautilus o l’andamento centripeto dei gorghi acquatici. La peculiarità geometrica rende anche possibile un interessante gioco cromatico, che vede l’acqua vertere verso un colore rossiccio, in prossimità delle linee di contorno dei cerchi, e variare le sue tonalità in tutti gli spazi di separazione tra una linea e l’altra. Tale effetto potrebbe derivare dalla presenza di microrganismi, attivati dalla variazione di quantità di sali marini. Ciò che si crea è un interessante effetto ottico, che gioca sull’ipnosi, sulla capacità ammaliatrice del moto ondoso e che richiama la rilassante atmosfera marittima. Un luogo di solitudine e di riflessione, dove ci si può allontanare dalla frenesia urbana.
Quello che rende davvero particolare quest’opera è la sua unicità, dettata dalla possibilità di poterla osservare pienamente solo dall’alto. Un punto di vista privilegiato, lontano dalla folla museale, che si cerca di sovrastare per rubare un attimo contemplativo all’opera appesa al muro. Un altro elemento distintivo è la sua fragile esistenza. Quando Smithson diede vita alla sua creazione, il livello del lago era particolarmente basso e questo gli permise di lasciare che si esponesse in tutta la sua magnificenza, prima di immergersi sotto la superficie acquatica per 21 anni, dal 1972 al 1993. Nel 1995 era dunque visibile e percorribile, ma la sua superficie era cambiata, in quanto sulle rocce si erano depositati sali marini, cambiandone il colore. Il 2002 ha portato con sé una nuova immersione, che è scomparsa negli ultimi anni, rendendo la composizione nuovamente visitabile.
Il messaggio che vuole veicolare Smith è quello di un’opera che si auto-rappresenti, che non debba ricorrere ai circoli viziosi del mercato dell’arte, ma che nasca e si trasformi continuamente nel luogo in cui è nata. L’artista imprime il suo tocco iniziale, ma il resto è lasciato al destino ed è questo che rende l’opera inafferrabile, mutevole, lontana dal tocco distruttivo dell’uomo, per salvaguardare l’ambiente e la sua natura varia e multiforme.